Visit our Location
250 Main Street, New York
Give us a Call
+ (12) 123 - 556 - 7890
Send us a Message
info@physiotherapy.com
Opening Hours
Mon - Friday: 8AM - 5PM

Eritropoiesi

Tutta la parte cellulare del sangue circolante è prodotta dal midollo osseo rosso la cui massa è pari a circa il 2% del peso corporeo. La cellula che produce le singole filiere si chiama cellula staminale ed ha la caratteristica che la sua duplicazione produce una cellula destinata alla differenziazione in una delle tre filiere ed una cellula destinata a rimanere staminale. Normalmente il midollo rosso produce ogni giorno 350 miliardi di cellule per ogni chilo del suo peso; poiché le cellule che sono prodotte rappresentano il 90% circa di quelle immesse nelle filiere dalle cellule staminali la quantità di cellule globali nel midollo rosso si aggira intorno ai 400 miliardi per ogni chilo.
Il midollo rosso produce circa 2.5 miliardi di globuli rossi per Kg di peso corporeo al giorno. L’attivià formativa è svolta all’interno di nicchie dello stroma midollare in cui sono annidati i precursori immaturi. La cellula staminale totipotente (SC) è ospitata nel cosiddetto “compartimento LSK” dove LSK è un acronimo per (lineage-/Scal+/c-kit+), dove è possibile riscontrare tre tipi di SC: le LT-SC, caratterizzate da una notevole capacità di auto-rinnovamento, una forte espressione dell’endoglina e del CD150, ma con bassa espressività per il Thy1.1, Rho e soprattutto del CD34; le ST-SC, caratterizzate da una ridotta capacità di autorinnovamento e dalla forte espressione del fenotipo CD34; e le MPP o progenitori megacariocitico/eritrocitico, in cui spicca, oltre alla positività per il CD34, quella per il determinante di membrana FLT3, la negativizzazione del Thy1-1 e la bassa espressione del CD11b. Ogni SC può andare incontro a due possibili esiti: un auto-rinnovamento simmetrico in cui da una cellula ne derivano due figlie che rimangono come tali, oppure un auto-rinnovamento asimmetrico in cui delle due cellule figlie una rimane SC, una diventa MPP. Le SC hanno un potenziale biologico estremamente elevato: una sola di esse è sufficiente a ricostituire un midollo normale nel ratto. L’auto-rinnovamento e il commissionamento sono il risultato dell’interazione di quattro vie regolatrici principali. Il complesso dell’ SCF, formato dal ligando SCF di origine fibroblastica ed endoteliale e dal suo recettore specifico, prodotto del proto-oncogene c-kit (CD117), la combinazione dei quali comporta l’autofosforilazione del recettore e successiva trascrizione dei geni che codificano per l’homing delle SC nelle nicchie mielopoietiche e l’auto-mantenimento delle medesime.
Il complesso formato dal recettore Notch e i suoi ligandi Delta1-3 e Jagged1-2 di origine osteoblastica, che attivando una gamma-secretasi porta al rilascio della porzione intracellulare del recettore Notch, la quale migra nel nucleo, dove complessandosi con il fattore di trascrizione CSL e i cofattori MAML induce l’attivazione della trascrizione sia dei geni coinvolti nel mantenere lo stato di cellula staminale indifferenziata in collaborazione con il complesso Wnt, sia dei geni che promuovono la differenziazione, soprattutto delle MPP. Il complesso del ligando Wnt, di origine stromale ma proveniente anche dalle SC CD34+ (azione autocrina), che combinandosi con il recettore Frizzled porta alla complessazione dello stesso con una proteina di membrana correlata al recettore lipoproteico e all’attivazione di una via interna che annovera la β-catenina, la cui complessazione con il fattore di trascrizione TCF induce un aumento della trascrizione dei geni coinvolti nell’auto-mantenimento. Ed il complesso Smad, a sua volta distinguibile in due vie ad effetto opposto: la via mediata dai ligandi della famiglia del TGFβ, che complessando il suo recettore omonimo attiva Smad2 e Smad3 con conseguente aumento di trascrizione di geni che mantengono la quiescenza delle SC e la via mediata dai ligandi BMP, che, attivando Smad5, sembra importante per l’auto-rinnovamento durante la mielopoiesi embrionale [1].
La cellula MPP che va incontro ad una reduplicazione asimmetrica, nella componente destinata ad ulteriori passi maturativi, diventa CMP o progenitore mieloide comune, il quale si differenzia in una cellula orientata in senso granulocito-monocito-poietico (GMP) o in una cellula orientata in senso Eritro-trombocitario (MEP). A questo punto la MEP, che è la cellula che qui interessa, lascia il compartimento dei progenitori multipotenti per entrare nel compartimento dei progenitori commissionati come BFU-E. L’attività proliferativa e differenziativa delle BFU-E è regolata in piccola parte da un ormone di origine renale, l’eritropoietina (EPO) e in gran parte da citochine prodotte in loco dalle cellule dello stroma, ma anche provenienti dal circolo sistemico: hanno azione facilitante le interleuchine 3, 4, 5, 6, 9 e 11, hanno azione bloccante l’interleuchina 8, il MIP-1, il VEGF e i TNF. Le BFU-E si differenziano in CFU-E, sulle quali il numero dei recettori per l’EPO aumenta e compare il recettore per la transferrina (TfR1): ciò vuol dire che in questo tipo di cellula è iniziata la produzione di emoglobina ed è iniziata, quindi, l’assunzione sistematica, continua e preferenziale di Fe. Anche le CFU-E sono soggette all’azione facilitante di alcune interleuchine (2 e 6) e ostacolante del TNFα, ma in minor misura rispetto alle BFU-E. Le CFU-E si differenziano in proeritroblasto, una cellula di circa 30 μm di diametro, in cui l’aumento progressivo dell’emoglobina intracellulare, la graduale riduzione del volume e il raddoppio del numero delle cellule in ogni fase del processo maturativo lo portano a diventare prima eritroblasto basofilo, poi eritroblasto policromatofilo e quindi eritroblasto ortocromatico. Durante questo processo le cellule conservano la capacità riproduttiva fino all’ultima tappa, quando si realizza la degenerazione e l’espulsione del nucleo. Ogni CFU-E, quindi, genera 2 proeritroblasti, 4 eritroblasti basofili, 8 eritroblasti policromatofili, 16 eritroblasti ortocromatici, i quali, a loro volta, esitano in 32 reticolociti [2].
Questa maturazione si compie nel giro di circa 5 giorni e si conclude con la produzione di reticolociti, cioè di una cellula anucleata di circa 7.5 μm di diametro, granulata, con un volume che è pari al 25% di quello del proeritroblasto. Il reticolocita matura definitivamente in globulo rosso nel giro di 24 h, in massima parte nel midollo, in parte, molto piccola, in circolo, dove finisce per rappresentare circa l’1% dei globuli rossi nel sangue.
Le tappe finali dall’eritroblasto ortocromatico al reticolocita maturo sono costituite essenzialmente dalla rapida eliminazione dei recettori TfR1, dalla enucleazione con produzione di un pirenocita, formato dal nucleo degradato dell’eritroblasto per un processo di deacetilazione e in minor misura di demetilazione degli istoni, dall’eliminazione dei mitocondri attraverso l’attivazione del fattore NIX , proteina del complesso BCL2 e in minor misura per autofagia tramite alcune serin-treonin-kinasi (ULK1 e Atg7), nonché dalla distruzione dei ribosomi per opera delle ribonulceasi [3].
Non tutte le cellule anucleate, comunque, diventano reticolociti maturi e, quindi, globuli rossi, perché il 10% è fagocitato per vari motivi strutturali all’interno del midollo stesso. Il centro motore di questa lunga filiera maturativa è il cosiddetto “isolotto eritropoietico”, formato da uno o più macrofagi, che costituiscono la componente cellulare centrale deputata sia alla produzione delle citochine, sia al controllo del metabolismo del Fe, sia alla fagocitosi dei nuclei e delle cellule difettose. In linea di massima tutte le cellule fino allo stadio eritroblasto ortocromatico rimangono adese alla membrana dei macrofagi tramite alcune proteine di contatto ivi situate, quali VCAM-1, EMP e alfa-V, che trovano sulle cellule in fase maturativa le corrispondenti molecole alfa1-beta1, EMP e ICAM-4 [4].
Da un punto di vista strettamente umorale, quindi, il ruolo chiave dell’eritropoiesi è sostenuto dall’EPO, prodotta da cellule epitelioidi dei capillari della corteccia renale. In condizioni di normossia gli HIFs, o fattori indotti dall’ipossia, sono mantenuti allo stato ridotto dall’HIF-prolil-idrossilasi e, poi, complessati alla VHL E3, una ubiquitina, sono incamerati nei proteasomi e indirizzati alla eliminazione. In condizioni di ipossia, l’aumento del succinato all’interno dei mitocondri inibisce l’idrossilazione degli HIF, permettendo loro di agire. L’HIF-1, complessato agli HREs, induce la sintesi degli enzimi della glicolisi, la sintesi del VEGF e dell’EPO. L’EPO, una volta legato il recettore specifico, blocca l’azione della combinazione del Fas/Fas ligando tra eritroblasti ortocromatici ed eritroblasti più immaturi, nonché attiva il JAK2, con conseguente attivazione della PI3-chinasi e della STAT5, ambedue facilitatori della trascrizione genica, che nel caso specifico riguarda geni coinvolti nella crescita e nella maturazione degli eritroblasti; infine l’EPO riduce la sintesi di epcidina1, che vedremo essere l’inibitore principale della mobilizzazione del Fe [5] .
L’evento molecolare fondamentale nella maturazione del globulo rosso è la sintesi dell’emoglobina e cioè delle catene proteiche che nell’adulto e nelle varie fasi dello sviluppo embriofetale caratterizzano questa molecola e dell’eme.
La parte proteica dell’emoglobina, cioè le due doppie eliche che formano la globina, sono sintetizzate a partire dai geni specifici, tramite una regione del cromosoma 11 o 16, specifica, situata qualche decina di basi verso l’estremità 5’, formata da 200-400 bp ad alta sensibilità per la DNAse I ( DNAse I HS), definita LCR (Locus Control Region). Questa sequenza di basi lega diversi tipi di proteine trascrizionali: GATA-1, specifico per i box (A/T)GATA(A/G) con l’indispensabile collaborazione sia della proteina FOG-1 che del complesso TAL-1/SCL, fattore di trascrizione helix-loop-helix, EKLF o erythroid Kruppel-like factor specifico per i box CACC, il fattore YY-1 e l’SP1. Tutte queste proteine hanno la funzione di formare uno o più complessi promotori, costringendo l’estremità LCR a ripiegarsi verso l’estremità 3’ e ad assumere l’aspetto di un’ansa con la parte centrale occupata dai DNAse I HS, dove, appunto, si localizzano i fattori trascrizionali.Contemporaneamente, nell’adulto, il complesso PYR provvede a sopprimere la trascrizione dei geni ε, γ e δ, in modo che l’effetto promotore si concentri esclusivamente sul gene β. In questo modo gli LCR hanno la funzione di aumentare la trascrizione dei geni verso l’estremità 3’, isolando il locus da trascrivere dalla cromatina vicina e aprendone la cromatina. FOG-1 avrebbe il compito principale di rimuovere GATA-2 dai box GATA. Il GATA-2, infatti, è il principale fattore di repressione trascrizionale dei geni dell’α- e β-globina, il cui equilibrio con GATA-1 è governato soprattutto dal TNFα, che determina l’aumento trascrizionale di GATA-2 [6].
L’RNAm frutto della trascrizione è molto stabile, avendo un’half life di 10-20 h. Questa stabilità è sostenuta da due principali meccanismi di controllo del trascritto: dai 3’UTR degli RNAm dell’α- e β-globina, distinti strutturalmente e funzionalmente, nonché, soprattutto, dal complesso NMD o nonsense-mediated mRNA decay, il quale entra in funzione quando i ribosomi in fase di esplorazione dell’mRNA dopo lo splicing post-traslazionale individua una sequenza troncata prematuramente (PTC) oltre i 50-54 nucleotidi verso 5’ dalla giunzione di due esoni. In questo caso la proteina CBP80, situata all’estremità 5’ dell’mRNA, si pone sopra PTC ripiegando il tratto corrispondente di mRNA. Il successivo decapping e rimozione esonucleotidica prima nella direzione 3’-5’ poi in quella 5’-3’ ad opera degli esosomi, porta alla degradazione completa dell’mRNA danneggiato [7]. Ma esiste anche una stabilizzazione post-traduzionale, soprattutto per quanto riguarda le catene α della globina, prodotta da una proteina specifica, AHSP, la cui sintesi è promossa dai fattori di trascrizione GATA-1 e Oct-1.
La sintesi dell’eme inizia all’interno dei mitocondri ad opera dell’enzima principale dell’intero processo che è l’ALA-sintetasi, per mezzo della quale da una molecola di glicina e da una di succinil-CoA è prodotta una molecola di Acido-d-aminolevulinico, il quale, una volta uscito dal mitocondrio, subisce nelle cisterne del reticolo endoplasmatico liscio una ciclizzazione a Porfobilinogeno; quattro di queste molecole sono poi condensate ad opera di una deaminasi e ciclizzate a formare Uroporfirinogeno III, che per decarbossilazione è trasformato in Coproporfirinogeno III. Da questa molecola, rientrata nel mitocondrio dove subisce una doppia ossidazione, deriva la Protoporfirina IX, cioè un anello tetrapirrolico. Sarà la ferrochelatasi che, infine, inserirà il Fe++ al suo interno. La sintesi degli enzimi di questo ciclo, nell’eritroblasto, a differenza che in altre cellule, è molto stabile ed è influenzata soprattutto dalla disponibilità di Fe, la cui riduzione blocca proporzionalmente la trascrizione del gene che codifica l’ALA-sintetasi [8] .
L’altro elemento indispensabile per costruire l’eme è il Fe. Una dieta equilibrata di un adulto ha un contenuto medio di Fe di 20 mg/24 h. Di tutto il Fe che si ingerisce è assorbito poco meno del 30%, equamente diviso fra Fe minerale e Fe emico. In condizioni di particolare fabbisogno questa quota può aumentare fino al 35%. Il Fe minerale è assorbito generalmente dopo complessazione con acidi organici mentre il Fe emico è assorbito come tale. Le cellule della mucosa intestinale, soprattutto del duodeno e del primo tratto del digiuno, assorbono il Fe inorganico veicolandolo all’interno della cellula per mezzo della DMT1, dopo averlo ridotto a Fe++ ad opera di un enzima specifico, il Dcytb. Al termine del processo risulta assorbito soltanto l’1.5% del quantitativo ingerito. Il Fe emico, invece, è assorbito forse tramite mediatori specifici ed è liberato dal complesso con l’eme all’interno dell’enterocita, dove raggiunge una concentrazione pari ad ¼ della quantità ingerita. La cellula intestinale, dopo aver ossidato a Fe+++ tutto il Fe assorbito, ne conserva una parte nella ferritina propria, che non recupererà mai più dopo i suoi 3-4 giorni di vita, e libera il resto nel sangue tramite l’azione della ferroportina insieme all’ efaistina, un enzima ossidasico specifico rame-dipendente. Questo ciclo si realizza in poche ore e la velocità di assorbimento è equivalente alla velocità di cessione. E’ evidente che il contenuto di Fe del sangue portale, cioè del sangue venoso che dall’intestino giunge al fegato, è superiore a quello del resto del sangue circolante. A livello del sangue il Fe+++ è veicolato dalla transferrina, una proteina di trasporto prodotta dal fegato, ai tessuti periferici, per la maggior parte in ragione di 1 atomo per molecola. La transferrina si lega alle cellule che presentano sulla superficie il recettore specifico; quando ne prende contatto viene internalizzata sotto forma di vescicole, entro le quali l’aumento dell’acidità determina la liberazione del Fe+++ dalla sua proteina di trasporto, che viene riportata sulla membrana cellulare insieme al suo recettore, ambedue integri, mentre il Fe+++ è ridotto a Fe++. All’interno delle cellule dei tessuti periferici, compreso l’eritroblasto, il Fe è distribuito fra Fe immediatamente utilizzabile per la sintesi delle ferro-proteine e in Fe depositato nelle molecole di ferritina. In particolare, nei macrofagi la quantità di Fe ferritinico è molto più elevata del Fe metabolico, tanto che parte del Fe di deposito è accumulato in un polimero della ferritina, l’emosiderina: la differenza fra le due molecole è che la ferritina ospita 4500 atomi di Fe per molecola, corrispondenti a circa il 20% del suo peso secco, e si trova in circolo, mentre l’emosiderina contiene il 50% in più di Fe e non si trova in circolo. Il Fe ferritinico è mobilizzabile dai macrofagi e dagli epatociti in cui è depositato grazie sia alla ferroportina, come nell’enterocita, sia ad una proteina rame-dipendente, non enzimatica come l’efaistina, che è la ceruloplasmina [9].
La sideremia, cioè la concentrazione di Fe, nel sangue del neonato ammonta a 1.8 μg/mL, nel bambino a 0.8 μg/mL, nell’adulto maschio a 1.15 μg/mL e nell’adulto femmina a 1.05 μg/mL, saturando soltanto, in tutti i casi, il 30% della capacità totale di legare Fe da parte della transferrina. I livelli di sideremia sembrano seguire un andamento circadiano, poiché al risveglio raggiungono i valori più alti, mentre dopo 12 h toccano i valori più bassi. La ferritinemia fra i 6 mesi e i 12 anni di età si mantiene intorno ai 30 ng/mL, per stabilizzarsi a 66 ng/mL nella donna fino ai 45 anni per poi aumentare a 100 ng/mL dopo questa età, mentre negli uomini a 18 anni arriva in media a 46 ng/mL, a 35 anni a 170 ng/mL, a 45 anni a 196 ng/mL.
Il regolatore principale di questo complesso metabolismo è l’epcidina, un ormone sintetizzato dal fegato, che ha la funzione di complessare la ferroportina sia negli enterociti che nelle cellule periferiche, compresi i macrofagi, determinando la fosforilazione della proteina Jak2, bloccando, quindi, la mobilizzazione del Fe e inducendo la sintesi di ferritina. L’epcidina, a sua volta, è regolata, nella quantità in cui viene prodotta, dall’azione stimolante delle BMPs, dell’interleuchina 6, dell’HFE e della transferrina, mentre subisce l’azione inibente della Matriptasi 2, dell’HIF e di due citochine di origine midollare la GDF15, prodotta dagli ertitroblasti terminali e la TWSG1, sintetizzata, forse, dalle cellule più immature della filiera eritroide. In particolare, l’azione delle BMPs è fortemente influenzata dall’emojuvelina di membrana (mHJV) la cui inattivazione e trasformazione in emojuvelina solubile è sostenuta dalla Matriptasi 2 [10].
Nell’economia generale del metabolismo del Fe un ruolo importante è svolto dalle perdite fisiologiche e dalle richieste dell’organismo in rapporto all’età e alla crescita. Nel maschio adulto la perdita giornaliera è di circa 1 mg, nella donna in età fertile la perdita è il doppio, poiché con l’emorragia mestruale sono perduti mediamente 30 mg di Fe. Dopo una gravidanza il bilancio netto del Fe comporta un deficit medio di 700 mg, quindi con una perdita giornaliera di poco meno di 3 mg. Dalla nascita fino ai 12 anni di età il fabbisogno giornaliero aumenta in ragione di 40 mg/Kg e dai 12 ai 18 anni nei maschi l’incremento della richiesta è di 0.4 mg/24 h, nelle femmine di 0.6 mg/24 h.
Gli altri due elementi indispensabili per una corretta maturazione degli eritroblasti sono la vit. B12 e l’acido folico o vit. B9. Ambedue queste vitamine agiscono sulla sintesi degli acidi nucleici. In particolare la vit. B9 subisce la trasformazione in tetraidrofolato (THF) tramite la di-idrofolico-ossidoreduttasi (DHFR). Il THF è la molecola accettrice del radicale idrossimetilico che per mezzo dell’omonima transferasi trasforma la serina in glicina; ma lo stesso gruppo può compiere il percorso inverso ad opera della serin-transidrossi-metilasi che produce serina dalla glicina, ovviamente estraendo il gruppo idrossimetilico dal metile-THF. L’ N5,N10-metilen-THF può subire la trasformazione in N5,N10-metenil-THF ad opera di un’ossidasi specifica. L’N5,N10-metenil-THF è il cofattore della transferasi specifica che sintetizza la 2’-deossitimidina-5’-fosfato dalla 2’-deossiuridina-5’-fosfato, precursore fondamentale della timina, base essenziale per la sintesi del DNA. L’N5,N10-metenil-THF può ciclizzare sulla posizione N5 o N10 e trasformarsi in N5- o N10-formil-THF per l’azione, rispettivamente, di una ciclo-idrolasi e di una sintetasi specifica. L’ N10-formil-THF svolge il ruolo fondamentale di coenzima in due tappe del ciclo di sintesi delle purine, basi essenziali sia per il DNA che per l’RNA. Quindi, è evidente l’assoluta necessità di THF metilato per sostenere un’attività metabolica di sintesi delle basi puriniche e pirimidiniche in quei tessuti, come il midollo osseo rosso, ad alto quoziente di cellule in fase proliferativa.
L’N5-metil-THF, che per la maggior parte è prodotto dalla conversione del gruppo metilenico tramite una reduttasi specifica FAD-dipendente, partecipa alla donazione del gruppo metilico all’omocisteina perché questa sia convertita in metionina ad opera della metionin-sintetasi. Il processo avviene in due tappe: il gruppo metilico è trasferito ad opera della metionin-sintetasi dalla vit.B12 all’omocisteina, ma la vit.B12 è metilata ad opera della metil-tetraidrofolato-ossidoreduttasi, la quale riconosce come coenzima l’N5-metil-THF. Questo crocevia vit. B12-THF all’altezza della sintesi della metionina comporta che la riduzione di concentrazione della vit.B12, finisce per accumulare metilen-THF e quindi finisce per diminuire la disponibilità di THF per ricevere i gruppi metilenici metenilici e metilici. Questo fenomeno metabolico sta alla base della così detta “trappola dei folati”, poiché livelli normali o in eccesso di vit.B9 rispetto alla vit.B12, come, appunto, nelle carenze di quest’ultima, comporta il mascheramento degli effetti deleteri che la carenza di vit.B12 ha sulla sintesi degli acidi nucleici [11][12].
La vit. B12 partecipa però ad un’ altra tappa metabolica: la conversione del meti-lmalonil-CoA in succinil-CoA ad opera della metil-malonil-CoA-mutasi. Il metil-malonil-CoA, a sua volta, deriva dal propionil-CoA carbossilato da un enzima specifico che ha come coenzima la vit.B7. Il propionil-CoA deriva dalla degradazione di alcuni aminoacidi (metionina, treonina, valina, isoleucina), del colesterolo e delle catene di acidi grassi ad atomi dispari. L’accumulo di metil-malonato all’interno dei mitocondri, dove avvengono tutte le reazioni di sintesi del succinato, provoca una forte riduzione dell’ α-chetoglutarato e dell’attività dell’ α-chetoglutarato-ossidoreduttasi, che riduce notevolmente l’attività del ciclo degli acidi tricarbossilici glutammato-dipendente, cosa che avviene soprattutto nelle cellule neuronali.
La vit. B9 è assunta generalmente complessata all’acido glutammico soprattutto come poliglutammato. La scissione avviene in forma di mono- o di-glutammato avviene a livello del digiuno, mentre l’assorbimento si attua prevalentemente nel tratto medio del grosso intestino. Tutta la vit. B9 coniugata al residuo mono- o di-glutammico è portata al fegato dove avvengono le reazioni metaboliche della DHFR, tappa necessaria affinchè la vitamina acquisisca la funzione di cofattore enzimatico. Il fabbisogno giornaliero in un adulto è di circa 400 μg, ma cresce in caso di gravidanza (600 μg) e di allattamento (500 μg), mentre nel neonato fino ad 1 anno di età è di circa 70 μg, in età scolare è di 200 μg ed è pari a quella dell’adulto a 20 anni [13].
La vit. B12, invece, è liberata dai complessi organici in cui è contenuta dall’acidità gastrica; in questa fase è protetta dalle Proteine R (PR), di origine salivare, dalla degradazione che potrebbe subire da parte della stessa acidità gastrica. Nel duodeno le proteasi pancreatiche rimuovono le PR mentre la vit. B12 di nuovo libera è complessata dal Fattore Intrinseco (FI), una proteina prodotta dalle cellule parietali dello stomaco. Giunta nel tratto terminale dell’Ileo il complesso FI-Vit.B12 è assorbito dalle cellule intestinali tramite un recettore specifico e la vit. B12 è trasferita al polo vascolare dell’enterocita da dove la transcobalamina II, una proteina carrier specifica, la trasporta tramite il circolo portale al fegato, poi da qui a tutti i tessuti. Questo meccanismo di assorbimento, piuttosto complesso, è molto inefficiente, perché della quantità ingerita è assorbito, al massimo, il 30%. La metà dell’intero quantitativo di vit. B12 stoccata nell’organismo, pari in media a 4 mg, è conservata nel fegato e da questo eliminata tramite la bile nell’intestino da dove è nuovamente riassorbita. Durante questo transito intestinale si perdono circa 3 μg al giorno di vit. B12, che è il reale fabbisogno giornaliero di un adulto. Il fabbisogno giornaliero in caso di gravidanza e allattamento aumenta di appena il 10%. Nel neonato il fabbisogno giornaliero è 1/6, mentre nell’età scolare sale alla metà per raggiungere la parità rispetto a quello dell’adulto a 20 anni [14].
 
Conclusioni: l’eritropoiesi consiste in un complesso processo maturativo a cui vanno incontro le cellule staminali midollari orientate in senso eritroide ad opera di fattori multipli: programma genetico differenziativo interno tramite attivazione sequenziale di fattori di trascrizione specifici per la sintesi dei tre principali elementi della differenziazione eritroide: la sintesi dell’emoglobina, la sintesi del recettore dell’eritropoietina e la sintesi del recettore della transferrina. Nel corso del processo differenziativo le cellule più immature perdono l’attività di autorinnovamento, presentano una progressiva degenerazione del nucleo, dei mitocondri, dei ribosomi, in maniera concomitante al progressivo accumulo di emoglobina. L’eritropoietina svolge in questo senso un ruolo fondamentale promuovendo la trascrizione dei geni differenziativi. La sintesi dell’emoglobina, che è il fenomeno metabolico preponderante durante le tappe maturative dell’eritroblasto, dipende esclusivamente dalla disponibilità di Fe, vit. B9, vit. B12. In particolare, la biodisponibilità del Fe dipende dal suo regolatore principale, l’epcidina,
 
 
Bibliografia
 
1 – Blank U, Karlsson G, Karlsson S. Signaling pathways governing stem-cell fate. Blood 2008;111:492-503 [full text]
2 – Tsiftsoglou AS, Vizirianakis IS, Strouboulis J. Erythropoiesis: Model systems, molecular regulators and developmental programs. IUBMB Life 2009;61:800-30 [full text]
3 – Migliaccio AR. Erythroblast enucleation. Haematologica 2010;95:1985-88 [full text]
4 – Chasis JA, Mohandas N. Erythroblastic islands: niches for erythropoiesis. Blood 2008;112:470-8 [full text]
5 – Fisher JW. Erytyhropoietin: Physiology and Pharmacology update. Exp Biol Med 2003;228:1-14 [full text]
6 – Forget BG, Hardison RC. The normal structure and regulation of human globin gene clusters. [full text]
7 – Peixeiro I, Silva AL, Romao L. Control of human β-globin mRNA stability and its impact on beta-thalassemia phenotype. Haematologica 2011;96:905-13 [full text]
8 – Layer G, Reichelt J, Jahn D, Heinz BW. Structure and function of enzymes in heme biosynthesis [full text]
9 – Ganz T, Nemeth E. Iron metabolism: interactions with normal and disordered erythropoiesis. Cold Spring Harb Perspect Med 2012;2(5):a011668 [full text]
10 – Finberg KE. Unraveling mechanisms regulating systemic iron homeostasis. Hematology 2011;n.1:532-7 [full text]
11 – Wagner C. Symposium on the subcellular compartmentation of folate metabolism. J Nutr 1996;126:12285-12345 [full text]
12 – Ragsdale SW. Catalysis of methyl group transfers involving tetrahydrofolate and B12. Vitam Horm 2008;79:293-324 [full text]
13 – Ohrvik VE, Witthof CM. Human folate bioavailability. Nutrients 2011;3(4):475-96 [full text]
14 – Quadros EV. Advances in the understanding of cobalamin assimilation and metabolism. Br J Haematol 2010;148:195-204 [full text]

 

I Globuli Rossi

I globuli rossi sono cellule prive di nucleo, a forma di ciambella [1]. Misurano 7 μm di diametro, 2 μm di spessore, hanno una superficie di 135 μm2 ed un volume medio di 90 μm3.

Queste misure si adattano a quelle di un cilindro, ma in circostanze particolari il volume può aumentare anche dell’80%, facendo assumere al globulo rosso l’aspetto e le dimensioni di una sfera; la differenza fra le due forme è evidente, in quanto, nel primo caso il rapporto superficie/volume è pari a 1.5, mentre nel secondo caso è circa 1, cosa che determina una maggiore rigidità. D’altra parte, quando il globulo rosso è costretto a passare attraverso i capillari, che misurano 1/3 del suo diametro, può arrivare ad incrementare questa grandezza nella direzione del flusso fino a 4 volte il valore di riposo. L’elasticità è sostenuta da tre componenti proteiche del citoscheletro: la spectrina organizzata in esagoni, ed è quella che conferisce la forma biconcava al globulo rosso, una molecola di actina collegata alla tropomiosina e coadiuvata dalla proteina della banda 4.1 che costituiscono il complesso contrattile vero e proprio e l’ankirina che aggancia il complesso contrattile e la spectrina al doppio strato lipidico della membrana.

Ogni mL di sangue circolante ne contiene in media 6 milioni nei neonati, 4.7 milioni nei bambini fino ai 12 anni, 4.8 milioni nei maschi adulti e 4.2 milioni nelle femmine adulte. Questo vuol dire che se mettessimo in fila tutti i globuli rossi circolanti, per esempio, in un bambino copriremmo la distanza di 126 chilometri.
La membrana del globulo rosso, cioè l’involucro esterno, è fatto per il 52% di proteine, per il 40% di lipidi, e per l’8% di carboidrati. I lipidi, come in qualsiasi altra membrana citoplasmatica, sono arrangiati in un doppio strato interno ricoperto da uno strato glicidico esterno, il glicocalice ed uno interno di proteine. Nel glicocalice sono contenute la maggior parte delle glicoproteine che formano il patrimonio antigenico gruppo-specifico, le proteine di contatto, soprattutto le I-CAM e altri elementi glicolipidici fondamentali per permettere ai globuli rossi di entrare nella microcircolazione capillare. Sulla superficie esterna del doppio strato lipidico si ritrovano soprattutto fosfatidilcolina (30%) e sfingomieline (25%), mentre nello strato interno sono più concentrate la fosfatidiletanolammina (30%) e la fosfatidilserina (14%); questa configurazione fosfolipidica definisce la cosiddetta “asimmetria di membrana”.
Il colesterolo è situato nella parte centrale del doppio strato, soprattutto in aggregati, i cosiddetti “lipid rafts”, ed è destinato a cooperare nel conservare la struttura e la deformabilità della membrana. Lo strato proteico più interno è formato da enzimi e proteine carrier per gli elettroliti e i metaboliti. Questa è la configurazione chimica che dà stabilità al globulo rosso e ne impedisce la rimozione dalla circolazione. Se per qualsiasi motivo i fosfolipidi dello strato interno si esteriorizzano il globulo rosso non è più riconosciuto “sano” dal sistema ed è eliminato per fagocitosi prevalentemente nella milza. La componente proteica è quella che fornisce gli enzimi per il trasporto di metaboliti e gli antigeni dei gruppi sanguigni [2].
Ogni globulo rosso contiene circa 32 pg di emoglobina; questo fa sì che per ogni mL di sangue ci sono circa 190 mg di emoglobina nel neonato, 150 mg nei bambini fino a 12 anni, 153 mg nell’adulto maschio e 135 mg nell’adulto femmina; poiché l’emoglobina è un pigmento rosso è facile capire perché il sangue assume questa colorazione. L’ingombro dell’emoglobina si aggira intorno al 33% del volume totale del globulo rosso, cioè occupa uno spazio di 30 μm3; poiché il raggio di ogni molecola è di 27.10-4 μm e poiché la forma è grosso modo sferica, il volume di ciascuna molecola è di 82.10-9 μm3, per cui in uno spazio di 30 μm3 saranno ospitate poco meno di 300 milioni di molecole. L’emoglobina pur occupando un volume così ristretto rappresenta ben il 97% del peso secco di ciascun globulo rosso, e si conserva in una sospensione riconducibile ad un fluido newtoniano, per cui anche modesti aumenti della densità di questa sospensione riducono la deformabilità del globulo rosso. L’emoglobina è una molecola formata da una parte proteica detta globina e da quattro gruppi prostetici identici, ciascuno costituito da un anello tetrapirrolico, la protoporfirina IX, con al centro una molecola di ferro (Fe) bivalente (Fe++), legata a quattro residui aminici dell’anello. Questo complesso prende il nome di eme. Il Fe può essere presente anche in forma trivalente (Fe +++), ma in questo caso non lega l’O2. Il Fe rappresenta circa lo 0.32% del peso di ciascuna molecola di emoglobina, quindi la sua quantità per ogni globulo rosso è di 0.11 pg; il ferro contenuto nella masa eritrocitaria corrisponde al 65% del ferro corporeo.
La globina è formata da due coppie di catene amminoacidiche (alfa e beta) per il 97% dell’intero patrimonio molecolare di emoglobina (emoglobina A); un altro 3% è formato da emoglobina A2, in cui la coppia di catene beta è sostituita da una coppia di catene delta. Quantitativi trascurabili raggiunge dopo la 12° settimana dalla nascita l’emoglobina F o fetale, formata da due catene alfa e da due catene gamma. In ogni caso, le doppie catene formano quattro tasche in cui è ospitato l’eme e danno allo stesso stabilità chimica e strutturale. L’informazione genetica per la sintesi delle catene alfa si trova sul cromosoma 16 in ragione di due geni, mentre per tutte le altre catene i geni sono situati sul cromosoma 11, in ragione di uno per tipo, ad eccezione delle catene gamma che hanno due geni codificanti [3].
La funzione principale dell’emoglobina è quella di trasportare ossigeno dai polmoni agli organi periferici. Ogni grammo di emoglobina lega 1.34 mL di O2, cioè la quantità totale di ossigeno che viene trasportata è di circa 20 mL per ogni 100 mL di sangue arterioso, ammesso che tutti i gruppi eme siano stati saturati. La quantità di sangue che il cuore mediamente riesce a movimentare in 1 min. è di circa 750 mL nel neonato, 1800 mL a 1 anno, 2800 mL a 5 anni, 3900 mL a 10 anni, 5500 mL nell’adulto maschio e 4500 mL nell’adulto femmina, cosa che comporta l’arrivo ai tessuti, in 1 min, di circa 50 mL/Kg di Onel neonato, 27 mL/kg a 1 anno, 29 mL/Kg a 5 anni, 22 mL/Kg a 10 anni, 16 mL/Kg nell’adulto maschio e 15 mL/Kg nell’adulto femmina, contro un fabbisogno medio approssimativo di 15 mL/Kg, 7.5 mL/Kg , 7 mL/Kg, 6 mL/Kg, 3.5 mL/Kg e 3 mL/Kg, rispettivamente. E’ evidente che, in condizioni di riposo, esiste una sproporzione macroscopica fra il bisogno reale e quello messo a disposizione dal sangue, sebbene questo squilibrio vada riducendosi man mano che si avanza nell’età. E’ finalizzato al consumo di O2 da parte dei tessuti sia per l’attività fisica e/o mentale sia per la crescita staturo-ponderale del neonato e del bambino.
La capacità dell’emoglobina di legare e cedere O2 è condizionata da alcuni parametri ambientali: la temperatura, la pressione parziale di O2, il pH, la concentrazione del 2,3-difosfoglicerato e dallo stato ossido-riduttivo del ferro. In particolare, t6emperature inferiori a 37 °C diminuiscono l’affinità dell’emoglobina per l’O2 mentre il contrario si realizza per temperature superiori ai 37 °C. Per pressioni parziali di O2 comprese fra 50 e 100 mmHg la saturazione dell’emoglobina si sposta dal 75% al 100%, mentre per pressioni comprese fra lo 0 e i 50 mmHg la saturazione aumenta dallo 0% al 75%; ciò vuol dire che il rapporto fra percentuale di saturazione e pressione parziale di O2 è di 1.5 per i primi 50 mmHg di O2, ma soltanto di 1/3 per i secondi 50 mmHg di O2. L’emoglobina desaturata è tipica della cosiddetta forma T o taut, mentre la forma totalmente saturata è definita forma R o relaxed. Il rapporto R/T è definito dalla relazione
 
R/T = nlogpO2-nlogp50
 
dove n, definito coefficiente di Hill, indica il valore dei siti saturati quando la pO2 è pari a quella che produce il 50% di saturazione. Questo valore è uguale a 3.5 mentre per pO2 prossime allo 0 o molto superiori a quella che produce il 50% di saturazione, cioè un R/T = 0.5, questo valore si aggira intorno a 1. Tutto ciò significa che in presenza di bassissime o altissime pressioni parziali di O2 la saturazione avviene su un solo sito dei 4 disponibili nel primo caso e soltanto sull’ultimo sito nel secondo caso, mentre per pressioni più prossime a quella con R/T = 0.5 la saturazione è molto più rapida e completa, configurando un comportamento sinergico dei siti saturati su quelli da saturare. Quando il pH diminuisce, diminuisce anche l’affinità dell’emoglobina per l’O2, mentre il contrario si verifica se il pH aumenta; questo tipo di comportamento, definito effetto Bohr, è essenziale per aumentare la quantità di O2 che viene rilasciato ai tessuti in caso di abbassamento della pressione parziale dello stesso o quando, per esempio in seguito ad uno sforzo fisico intenso, aumenta la concentrazione degli ioni acidi nel sangue. Un effetto del tutto simile è svolto dal legame della CO2 con l’emoglobina, cosa che si realizza solo per il 10% della quantità totale di CO2 prodotta, ma che in situazioni particolari, come le gravi insufficienze respiratorie, aumenta la forma T dell’emoglobina. Il 2,3-difosfoglicerato è un prodotto intermedio del ciclo metabolico del glucosio all’interno del globulo rosso. E’ prodotto dalla conversione della gliceraldeide-3-fosfato ad opera della bifosfoglicerato-mutasi convertibile in glicerato-3-fosfato ad opera della 2,3-bifosfoglicerato-fosfatasi. Il livello di attività del primo enzima è influenzato dalla pO2, nel senso che a fronte di una diminuzione anche modesta di quest’ultima, come per esempio nell’ascesa ad alte quote o in caso di stati anemici, aumenta l’attività della bifosfoglicerato-mutasi, per cui la gliceraldeide-3-fosfato non viene immediatamente degradata a glicerato-3-fosfato. Infine, perché l’emoglobina possa legare l’O2 è necessario che il Fe nella tasche dell’eme sia mantenuto allo stato di ione Fe++, per cui tutti i meccanismi ossidativi svolti da modificazioni strutturali dell’emoglobina o da farmaci o da sostanze tossiche, che sopravanzano, seppure momentaneamente, i meccanismi biochimici di difesa consistenti nel mantenere lo stato dello ione Fe++, trasformano il Fe++ in ione Fe+++, impedendo di fatto il legame con l’O2. In questo caso si parla di metemoglobina, che non è soltanto una molecola patologica ma fa parte integrante del ciclo dell’NO all’interno del globulo rosso, vero sensore delle necessità di O2 da parte dei tessuti. Infatti, il globulo rosso riesce a regolare il flusso sanguigno nei capillari con due meccanismi fondamentali: la liberazione di NO dal nitrito e la liberazione di ATP, oltre al riciclo dell’NO assorbito da quello liberato dall’endotelio.
Per mantenere stabile l’emoglobina, ma anche per conservare l’equilibrio di membrana, dei metaboliti e degli elettroliti, il globulo rosso consuma energia chimica, che prende dalla via metabolica della glicolisi anaerobia, cioè dalla degradazione di 1 molecola di glucosio in 2 molecole di piruvato. Durante questo ciclo è prodotta energia chimica sotto forma di ATP, che è utilizzato in particolare per mantenere l’asimmetria di membrana tramite le flippasi ATP-dipendenti. Da una molecola di glucosio metabolizzata tramite il ciclo dei pentoso-fosfati ricava 2 molecole di NADH.H+ e 2 molecole di NADPH.H+,un coenzima ridotto fondamentale per garantire la stabilità dell’emoglobina nella componente Fe. Infatti, la citocromo b5-ossido-reduttasi usa come coenzima attivo il NADH.H+ per mantenere il Fe allo stato bivalente. Così, il NADPH.H+ è essenziale, come coenzima, per ridurre il glutatione ossidato e renderlo disponibile per mantenere i gruppi sulfidrilici della membrana e dell’emoglobina allo stato ridotto; questo meccanismo di stabilizzazione dell’emoglobina sembra essere meno importante per mantenere le sacche dell’eme in condizioni fisiologiche [4].
I globuli rossi durano in circolo 120 giorni, dopo di che sono rimossi dalla circolazione. In realtà circa il 15% non raggiunge questa età perché sono distrutti durante la loro vita da fenomeni meccanici di schiacciamento e stiramento all’interno dei territori microvascolari soggetti a pressione esterna o su superfici vascolari interne non regolari. I meccanismi che sono stati proposti per spiegare la distruzione programmata dei globuli rossi sono numerosi ma nessuno spiega in maniera esaustiva questo fenomeno. Il dato più rilevante è che i globuli rossi vecchi hanno una densità maggiore dei globuli rossi giovani. Da che cosa derivi questa caratteristica fisica non è dato di sapere. Non sembra essere in giuoco l’invecchiamento degli enzimi deputati al metabolismo energetico e quindi non sembra essere in giuoco una carenza di molecole fornitrici di energia chimica come l’ATP o i coenzimi ridotti NADH.H+ e NADPH.H+. Una valore maggiore è attribuito, invece, all’entrata del Ca++ all’interno del cytosol con una corrispondente uscita di H2O e K+, con uno squilibrio che sostiene soprattutto una maggiore rigidità del globulo rosso. E’ stata dimostrata anche una perdita di carboidrati di membrana, ed in particolare di acido sialico, capace di neoformare glicopeptidi tipici della senescenza, che costituiscono uno dei segnali capaci di attivare la fagocitosi macrofagica. Molto significativa sembra anche la polimerizzazione di proteine del citoscheletro, come la spectrina e della membrana come la banda 3, conseguenza diretta dello stress ossidativo a cui il globulo rosso è soggetto per il continuo andirivieni dell’O2, molecola ad altissimo potere ossidante. Contro i polimeri della banda 3 sono stati ampiamente descritti anticorpi specifici, presenti in tutti i soggetti sani, ma in quantità molto contenuta e comunque incapaci di spiegare completamente la distruzione programmata dei globuli rossi. L’ipotesi che sembra più verosimile, sebbene ancora in fase di studio, è quella che individua alla base dell’invecchiamento eritrocitario la perdita dell’asimmetria di membrana, per riduzione di attività delle translocasi specifiche che garantiscono la concentrazione degli aminofosfolipidi sulla superficie interna della membrana; la esteriorizzazione conseguente di questi fosfolipidi è il segnale che attiva i macrofagi a rimuovere i globuli rossi; resta da stabilire come le translocasi perdono la loro funzionalità secondo un programma ben preciso [5].
Il 15% dei globuli rossi che viene distrutto in sede intravascolare libera emoglobina, che è rapidamente complessata in modo irreversibile dall’aptoglobina, una molecola proteica di origine soprattutto epatica, che ha il compito di impedire che l’alto potenziale ossidativo dell’emoglobina possa danneggiare soprattutto il rene. Ma la gran parte dei globuli rossi invecchiati è fisiologicamente rimossa in sede extravascolare, nella milza, ed in minor misura nel fegato e nel midollo osseo ad opera dei macrofagi. In questa loro funzione i macrofagi svolgono un ruolo assolutamente centrale nell’emopoiesi. La componente proteica dell’emoglobina è degradata ad aminoacidi, mentre i gruppi eme seguono un destino ben preciso. Una parte di essi entra all’interno del nucleo e tramite la complessazione con un fattore repressore, il Bach-1, attiva la trascrizione genica sia dell’eme-ossigenasi 1 sia della ferroportina. L’eme-ossigenasi, rompe l’anello tetrapirrolico, produce CO, unica sorgente fisiologica di CO nell’organismo umano, libera il Fe dall’eme come Fe++ ed avvia queste due molecole a due destini metabolici diversi. Il Fe in parte entra nel pool del Fe di deposito, sottoforma di ferritina, in parte, tramite la ferroportina, è condotto in superficie e liberato in circolo [6]. L’eme linearizzato e privo di Fe è definito biliverdina, che subisce un’ulteriore ossidazione a bilirubina ad opera di una reduttasi specifica. La bilirubina lascia il macrofago e tramite il circolo ematico giunge al fegato complessata con l’albumina, la principale molecola capace di legare la forma non coniugata della bilirubina.
La cellula epatica acquisisce la bilirubina tramite l’OAP 1B1, una proteina di trasporto per gli anioni organici, e veicola la medesima tramite la ligandina, all’interno del reticolo endoplasmatico liscio. In questa sede la bilirubina subisce l’azione di una UDP-glicuronil-transferasi, la UGT 1A1, per mezzo della quale, grazie a due molecole di glicuronato, la bilirubina diventa una molecola idrosolubile ed è escreta al polo biliare dell’epatocita per opera di un trasporter canalicolare ATP dipendente, la MRP2 (Multidrug Resistance Protein 2); attraverso, poi, il circolo biliare è immessa nel piccolo intestino [7]. La flora batterica del colon degrada in parte la bilirubina coniugata per mezzo delle glicuronidasi, per cui poco meno di 1/7 della bilirubina coniugata ricevuta dal fegato è ritrasformata in bilirubina non coniugata e inviata dalle cellule intestinali al fegato, di nuovo sottoforma di complesso con l’albumina, mentre il resto è degradato soprattutto a urobilinogeno, un pigmento privo di colore che per il 15% è riassorbito e mandato al fegato, il quale, senza ulteriori coniugazioni, lo immette nella circolazione sistemica, attraverso la quale giunge al rene dove è filtrato e ossidato a urobilina, la sostanza che contribuisce di più al colore tipico dell’urina. L’85% dell’urobilinogeno fecale è convertito ad urobilina dalla medesima flora batterica intestinale, e insieme ad altri pigmenti come la mesobilina e la stercobilina, sempre derivati dal catabolismo della bilirubina, conferisce al bolo fecale il suo tipico colore marrone.
Da 1 gr di emoglobina si generano circa 35 mg di bilirubina, per cui in un giorno sono prodotti in media 350 mg di bilirubina; la quantità di stercobilina prodotta in un giorno è in media di 200 mg, quindi circa 1/3 della bilirubina prodotta non è degradata o riconvertita in sede intestinale. Questa notevole quantità è inattivata ad opera della luce in molecole idrosolubili di piccole dimensioni, come le idrossirubine e le bilicresine, ad opera di una mono-ossigenasi specifica associata al microsoma P448.
Conclusione: i globuli rossi sono cellule anucleate, le cui caratteristiche strutturali della membrana e del citoscheletro dei quali garantiscono la loro estrema elasticità. Il volume di ciascun globulo rosso è interamente occupato dall’ emoglobina, una molecola proteica complessa formata da due coppie di catene aminoacidiche e da quattro gruppi eme, ciascuno dei quali è costituito da un anello tetrapirrolico e da una molecola di Fe. L’emoglobina trasporta l’O2 nel sangue e la sua funzione di cessione dello stesso ai tessuti dipende dalla temperatura, dal pH, dalla concentrazione della CO2 e del difosfoglicerato. Il globulo rosso è anche un veicolatore di sostanze vasodilatanti, come l’ATP e l’NO, che scambia mutuamente con l’endotelio dei capillari. L’energia chimica essenziale a mantenere la stabilità della membrana e dell’emoglobina deriva dal metabolismo anaerobico del glucosio. Dopo 120 giorni di vita i globuli rossi sono rimossi dal circolo ad opera dei macrifagi, soprattutto della milza, con recupero del Fe, degli aminoacidi delle catene dell’emoglobina e la produzione di bilirubina che fa seguito alla degradazione degli anelli tetrapirrolici dei gruppi eme.
 
 
Bibliografia
1 – Diez_Silva M, Dao M, Han J, Lim CT, Suresh S. Shape and biochemical characteristics of human red blood cells in health and disease. MRS Bulletin 2010; 35:382-388 [full text]
2 – Mohandas N, Gallagher PG. Red cell membrane: past, present, and future. [full text]
3 – Perutz MF. Molecular anatomy and physiology of hemoglobin, in Steinberg MH, Forget BG, Higgs DR, Nagel RL Disorders of hemoglobin, Cambridge University Press 2001, pp.174-96 [full text]
4 – Greer J, Foerster J, Rodgers GM, Paraskevas F, Glader B, Arber DA, Means RT Jr. Wintrobe’s Clinical Hematology,volume 1, Wolters Kluver Health, Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia 2009, pp. 148-55 [full text]
5 – Ibidem, pp. 157-69 [full text]
6 – Beaumont C. Multiple regulatory mechanisms act in concert to control ferroportin expression and heme iron recycling by macrophages. Haematologica 2010;95:1233-36 [full text].
7 – Fewery J. Bilirubin and clinical practice: a review. Liver International 2008, 592-605 [full text]

Il sangue: un tessuto in movimento

Il sangue è un tessuto liquido, contenuto nel sistema cardiovascolare, sottoposto all’azione dinamica del cuore e delle arterie. La parte circolante è distinta da una parte statica contenuta nelle ossa del cranio, nelle vertebre, nelle scapole, nello sterno, nelle ossa del bacino e nelle estremità delle ossa lunghe, dove forma il midollo osseo rosso, distinto dal midollo osseo giallo costituito in prevalenza da adipe..
Il sangue circolante assomma nel neonato a 90 mL/Kg di peso corporeo, nei bambini a 80 mL/Kg di peso corporeo mentre nell’adulto raggiunge circa 70 mL/Kg di peso corporeo, misure che indicano una riduzione progressiva con la crescita corporea del volume totale dovuto alla perdita dello stato di idratazione. E’ composto di due parti: una cellulare, che nei neonati a termine si aggira intorno al 55% del sangue circolante, fra i 6 mesi e i 6 anni di vita intorno al 37%, entro i 12 anni al 40% circa, in un adulto maschio è in media del 45%, in un adulto femmina del 41%; una parte liquida, che ovviamente tende ad aumentare man mano che si passa dall’ età neonatale all’età adulta, composta per il 92% di acqua, che rappresenta il 5% del peso corporeo, e soltanto per l’8% da proteine ed elettroliti. La componente cellulare appare di colore rosso perché è costituito per il 94% da globuli rossi, per poco più del 5% da piastrine e solo per l’1% da globuli bianchi.
Il sangue, a differenza di altri tessuti, è in continuo movimento all’interno dei vasi sanguigni, che si possono assimilare a tubi circolari.
Il modello matematico più semplice e adatto ad interpretare il movimento del sangue nell’apparato circolatorio è espresso dall’equazione di Poiseuille [1]
Q = π ΔPR4(8ηL) -1
dove Q è il flusso volumetrico, ΔP è la differenza di pressione fra gli estremi del vaso, R è il suo raggio, L la sua lunghezza ed η la viscosità. Questa equazione ci dice anzitutto che l’entità del flusso è direttamente proporzionale alla differenza di pressione, per cui nei vasi arteriosi tende a diminuire man mano che si passa dalla macro- alla micro-circolazione, mentre il contrario si verifica nei vasi venosi. La stessa entità del flusso è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio del vaso, per cui anche piccoli aumenti delle sue dimensioni comportano forti aumenti del flusso. Inoltre, la viscosità è inversamente proporzionale all’entità del flusso in un rapporto tale che a ΔP, R ed L costanti l’aumento di 1/8 dell’unità di viscosità comporta una diminuzione del flusso di una unità. Q si esprime in cm3/sec. In realtà il sangue non si muove in tubi rigidi ma in tubi elastici e ad autoregolazione, per cui in un punto qualsiasi dell’apparato circolatorio il raggio non rimane fisso in ogni momento. La formula più semplice con cui si può valutare la viscosità è la versione semplificata dell’equazione di Einstein per i fluidi viscosi [2] :
η = η plasma(1 + kHt)
dove Ht è il valore della massa cellulare per unità di volume, cioè l’ematocrito e k una costante che dipende dalla temperatura espressa. Si vede chiaramente che la viscosità totale è direttamente proporzionale sia alla viscosità del plasma che all’ematocrito, con la differenza che la variazione di 1 unità di viscosità plasmatica a parità di ematocrito comporta una variazione di 1 unità della viscosità totale, mentre la variazione di una unità di Ht a parità di viscosità plasmatica aumenta di 1.5 punti la viscosità totale. La temperatura influisce nel senso che ogni riduzione unitaria della viscosità è prodotta dalla diminuzione della temperatura di 283 K o 10 °C. Questa grandezza si esprime in centi-Poise. Il modello di Einstein, però, non tiene conto dell’influenza che le dinamiche di flusso hanno sulla viscosità.
Per capire come la stessa viscosità influisce sul flusso e viceversa bisogna prendere in considerazione altre due variabili fondamentali: lo shear stress (τ) che è la tensione di taglio e lo shear rate (γ) che è il gradiente di velocità, dovute al fatto che aumentando la distanza (d) dal centro del flusso la velocità diminuisce proporzionalmente, in modo che sulla parete è:

γ = [ΔP(R2 – d2)(4ηL)](R – d)-1

e quindi

τ = γη

Una delle equazioni che sono utilizzate per valutare complessivamente lo shear stress del flusso ematico è la versione empirica dell’equazione di Casson [3]:

τ  0.5 = [(Ht-0.1)(CF+0.5)(100)-1 ] 0.5 +  (η plasma (1+2.5Ht+7.35Ht2)γ) 0.5

Lo shear stress si esprime in dyne-s/cm2, mentre lo shear rate in sec-1. La velocità di flusso che si valuta all’interno di un vaso, allora, è la velocità media (u) dei vari strati di liquido, che in base all’equazione di Poiseuille è:

u = Q( πR2)-1

per cui

τ = 32ηQ(πR3)-1

dove è evidente che la viscosità apparente è direttamente proporzionale allo shear stress e, quindi, al gradiente di velocità, alle dimensioni del vaso ma inversamente proporzionale al flusso volumetrico in ragione di 32 volte. Le arterie rispetto alle vene e i piccoli vasi rispetto ai grandi vasi hanno valori di shear rate e di shear stress più alti mentre la viscosità apparente aumenta in modo considerevole con la diminuzione del flusso, quindi è più alta nelle vene che nelle arterie e nei piccoli piuttosto che nei grandi vasi. E’, ovvio, che una modificazione della viscosità interna, come da un aumento dell’ematocrito, sarà più sensibile laddove lo shear rate è più alto , cioè dove il flusso volumetrico è più basso. Tutto ciò è vero fino a livello delle arterie terminali e delle vene .
L’80% del calo della pressione massima fra aorta e vena cava si realizza nella microcircolazione, dove la legge di Poiseuille si può riscrivere così [4] :
 
Q = π dPD4(128ηL)-1
 
In cui D è il diametro interno del vaso ed è la variabile più importante nel detrminare il valore di Q.
La microcircolazione consta di tre distretti vascolari: le arteriole, i capillari e le venule.
Le arteriole, dove si realizza circa il 50% del calo pressorio all’interno del microcircolo, sono vasi con D massimo fra 25 e 100 μm, dai quali si distaccano rami via via più piccoli. In questi vasi si realizza il fenomeno di Fahraeus-Linqvist [5], secondo il quale la legge di Poiseuille vale fino a vasi con D > 300 μm, poiché la resistenza al flusso volumetrico non aumenta con la diminuzione di D o, se si preferisce, di R, ma, al contrario, diminuisce. Il flusso, cioè, è organizzato secondo un modello a due fasi: una esterna newtoniana priva di cellule ed una interna più vischiosa, cellulata, sempre con caratteristiche newtoniane. Per vasi con D < 30 μm non esiste ancora un modello soddisfacente. Nelle arteriole con D < 60 μm la velocità di flusso non è uniforme e l’eterogeneità aumenta con il diminuire di D.   La regolazione principale del flusso risiede nella regolazione di D a livello arteriolare e nelle piccole arterie poste immediatamente prima delle arteriole. I fattori più importanti sono: un meccanismo miogenico, per cui D si riduce se aumenta ΔP e viceversa, sostenuto dal flusso degli ioni calcio e dalle integrine, un meccanismo endoteliale per cui all’aumento dello shear stress aumenta la liberazione di NO, un meccanismo eritroide, dovuto alla perdita di ATP, un potente vasodilatatore, da parte dei globuli rossi che transitano nella microcircolazione, un meccanismo metabolico per il quale, per esempio, la diminuzione della pressione parziale di O2 tessutale o un aumento della CO2, ha effetto vasodilatante, e meccanismi di origine neurale, per cui un aumento dell’attività recettoriale α-adrenergica diminuisce D, mentre una stimolazione β-adrenergica aumenta D.
I capillari sono vasi privi di parete muscolare e presentano dimensioni < 10 μm. Il flusso coincide con la velocità di movimento di 1 globulo rosso e l’ematocrito è notevolmente più basso di quello sistemico. Fra l’endotelio, che è lo strato cellulare più interno al vaso, e il sangue circolante è situato l’ESL, uno strato che guarda il lume vascolare formato da un fluido incomprimibile, una struttura sottostante deformabile a prevalente carica elettrica negativa e da un compartimento ionico mobile. La parte non deformabile è costituita da un complesso di glicosaminglicani di origine endoteliale e da proteine plasmatiche. Lo spessore dell’ESL varia con il variare dello shear stress e dello shaer rate: per velocità di flusso di 0.1 mm/sec è di 1 μm, ma per velocità di 0.4 mm/sec è di appena 0.2 μm. Nel caso di uno spessore di 1 μm in un capillare con D = 6 μm η è pari a 8 volte quella che si riscontra quando il sangue circola in un capillare di vetro dello stesso D.
Nelle venule η si raddoppia se dP scende di 5 volte e aumenta soltanto del 60% se dP aumenta di 4 volte. Questo riscontro che conferma il modello di Fahraeus-Linqvist è dovuto all’aggregazione dei globuli rossi e al fatto che i vasi venulari sono molto più corti delle arteriole. Il modello a due fasi è valido anche in questo caso ma lo strato esterno è occupato dai globuli bianchi che sono spinti verso la periferia dagli aggregati eritrocitari situati al centro; questo facilita enormemente tutti i fenomeni biochimici ed elettrostatici che stanno alla base del rolling, dell’adesione e della migrazione trans-endoteliale dei globuli bianchi, tutte azioni che sono concentrate sul versante venulare della microcircolazione. La velocità del flusso presenta un profilo misto ed asimmetrico, nel senso che, al contrario delle arteriole, la fase centrale non è newtoniana e la velocità è fortemente influenzata dalle notevoli variazioni dell’Ht e di η fra vasi venulari. ESL misura soltanto 0.3-0.5 μm e la sua conformazione è tale che la componente plasmatica del sangue è totalmente esclusa. ESL rimane tale anche al crescere di D; si modifica, nel senso che aumenta di spessore solo dopo D > 50μm.
Il flusso sanguigno, a differenza di quanto suppone il modello newtoniano, non si mantiene sempre laminare, ma spesso assume le caratteristiche di un flusso vorticoso. La variabile che lo descrive è il numero di Reynolds [5]:
 
Re = ρuL(η)-1
 
che è influenzato direttamente dalla densità (ρ), dalla velocità e dalle dimensioni del diametro del vaso ed inversamente dalla viscosità, per cui il fenomeno della vorticosità, a parità di densità e viscosità del sangue, è più probabile nei vasi più grandi, e più sul versante arterioso che venoso.
 
Conclusioni: il flusso di sangue all’interno di un vaso, di solito lamellare, dipende dalla differenza di pressione, dalla viscosità e dalle dimensioni della sezione del flusso. La velocità di flusso, in ogni sezione del vaso, è massima al centro, minima sulla parete. La viscosità aumenta in base all’ematocrito, alla temperatura, alla concentrazione del fibrinogeno, ma soprattutto per la diminuzione del diametro. Nella microcircolazione questa regola è contraddetta dal fenomeno di Fahaereus-Linqvist. La probabilità di un flusso vorticoso è maggiore nelle arterie e nei grossi vasi o quando la viscosità è bassa.
Bibliografia
 
1 – Miller G.E. Fundamentals of biomedical transport processes. Morgan & Claypool Publishers, 2010, pp. 29-30 [full text].
2 – Gordaninejad F., Graeve A.O., Fuchs A., York D. Proceedings of the 10th international conference on electrorheological and magnetorheological suspensions. World Scientific Publishing Co.Ptc.Ltd., 2007, pp. 21-24 [full text]
3 – Galdi G.P., Rannacher R., Robertson A.M., Turner S. Hemodinamical flows. Modeling, analysis and simulation. Oberwolfach, 2008, pp. 99-100 [full text].
4 – Popel A.S., Johnson P.C. Microcirculation and hemorheology. Annu Rev Fluid Mech, 2005;37:43-69 [full text]
5 – Goldsmith HL, Cokelet GR, Gaehtgens P. Robin Fahraeus: evolution of his concepts in cardiovascular physiology. Am J Physiol 1989; 257:H1005-13 [abstract]
6 – Baskurt D.K., Hardeman M.R., Rampling M.W., Meiselman H.J. Handbook of hemorheology and hemodynamics. IOS Press, 2007, pp. 293-4 [full text]

La parola “sangue” nei linguaggi indoeuropei

La parola “sangue” deriva dal latino “sanguis” con cui i Romani intendevano un liquido chiaro che scorreva all’interno del corpo, distinto dal sangue rosso coagulato, cioè fuoriuscito dai vasi sanguigni, tramite una ferita, che era indicato dalla parola “cruor”. Questi due termini hanno origini linguistiche diverse. “Sanguis” probabilmente deriva dalla radice proto-indoeuropea “esr-“ o “eshr-“ che significa proprio “sangue”. Dal proto-indoeuropeo sarebbero derivati il sanscrito “asrk”, l’antico armeno “ari-“, l’antico greco “ear”, l’antico latino “aser”, e il latino classico “sanguis” tutti con significato di “sangue”, nel senso di liquido corporeo. “Cruor”, invece, deriva da una radice proto-indoeuropea “kreuhz” o “kur-“, da cui sono originati il sanscrito “krura-“ e “kravis”, il protoslavo “ kry-“, l’antico greco “kreas”, l’hindi “huna” e l’antico inglese “hreaw”, con il significato di “sangue rappreso” o “carne sanguinolenta”, da cui, poi, il termine neolatino “carne”. Analogamente, sempre da una radice proto-indoeuropea più tarda “kreue-” è derivato il proto-germanico “khrawaz”, l’antico alto tedesco “hrawer” e il germanico “roh”. Da queste due radici derivano le parole dell’area europea orientale con cui è indicato il sangue, come “klev” in ceco, “krv” in slovacco e croato, “kri” in sloveno, “kpoBb” in russo, “kpb” in serbo, “krew” in polacco. Sebbene sia difficile datare la diffusione di radici e parole, tuttavia, è possibile pensare che le radici proto-indoeuropee si siano diffuse fra il 5500 e il 2500 a.C., il sanscrito dopo il 2000 a.C., mentre l’antico greco, l’antico latino, il proto-slavo e il proto-germanico si sono affermati fra l’800 e il 600 a.C. D’altra parte, queste due radici proto-indoeuropee sembrano confermare la divisione etnografica ed archeologica fra una indoeuropeizzazione slavo-germanica da una parte ed una indoeuropeizzazione mediterranea, greco-latina. Nelle lingue germaniche (tedesco, inglese, frisone, norvegese, svedese, gotico) a partire dal VI secolo a.C. si è affermata la radice “blodan-“ forse derivata da una radice proto-indoeuropea tarda “bhlo-to-“ da cui anche i proto-germanici “blotan” che significa “sacrificio”, ma che ha assunto il significato di “sangue” e “blothisojan” che letteralmente significa “marcare con il sangue” ma che acquisì, poi, il senso di “consacrare, rendere sacro”. L’uso di questo termine era associato ad una forte carica di paura, tanto che era accuratamente evitato, fino al XV secolo quando si è affermato nell’uso corrente di “blood” in inglese, “blut” in tedesco, “blot” in svedese.

Il greco classico, dopo il VI secolo a.C., ha cominciato ad usare per “sangue” la parola “aima”, all’origine del prefisso “emo-“ con cui si indica nelle parole composte di tutte le altre lingue indoeuropee la natura sanguigna del secondo termine. L’origine di questa parola non è nota, ma si ricollega al significato latino di “anima”, inteso come “spirito vitale”. Nel celtico, altra lingua indoeuropea, il sangue è reso dalla parola “fuil”, che è anche la forma verbale presente del verbo “essere”. In ambedue i casi deriva dall’imperativo “fil” che in antico irlandese significa “vedi, guarda”, dalla radice proto-indoeuropea “wel-“ con medesimo significato. In questo caso il sangue è abbinato al concetto di essere come persona, con un valore semantico simile a quello greco di “aima”. Si tratta, comunque, di un fonema acquisito intorno al VI secolo, sebbene sia possibile che derivi dall’irlandese primitivo risalente al III secolo a. C. In ultima analisi possiamo dire che la parola “sangue” nelle lingue indoeuropee è passata da un generico iniziale (circa XX-X secolo a. C.) significato di “liquido rappreso”, quasi carne ad un più preciso significato di “liquido corporeo” fra il X e il VI secolo a. C. Dopo questa data, ha assunto anche un significato più astratto di “elemento vitale”, sacro, inviolabile, perfino impronunciabile. Tutto questo è successo dopo il VI millennio a. C. Ma prima ? Nel sanscrito la parola “rhudam” oltre a significare “rosso” ha anche il significato di “sangue”, così come in ebraico la parola che indica il sangue indica anche il colore rosso. Gli aborigeni australiani, popolazione ferma al Paleolitico Superiore, ritiene che l’ocra si trovi dove è stato perduto il sangue mestruale da parte delle donne. E’ probabile che l’elevato uso di ocra rossa nei siti di sepoltura del Magdaleniano, tipico dell’uomo anatomicamente moderno, sia da ricondurre all’associazione simbolica della morte e della vita, nel senso che il rosso era legato alla vita mentre l’assenza era legata alla morte. L’Homo Sapiens Sapiens del Paleolitico Superiore ha aggiunto al rosso il significato di fertilità e capacità procreativa, perché la comparsa del ciclo mestruale dava la sicurezza che la donna era fertile, anche se durante la mestruazione l’uomo ne doveva evitare il contatto. L’uso stesso dell’ocra cosparsa sui morti, con una singolare attenzione per i bambini, era un modo per rendere immortale quei corpi o spalmata su una donna rappresentava lo stato di gravidanza. Del resto, le pitture murali delle grotte europee che raffigurano gli animali preistorici dal mammuth all’uro, fonti energetiche primarie per l’alimentazione dell’uomo di allora, sono state eseguite in più occasioni con ocra rossa. Il culto della Dea Madre, ampiamente praticato nel corso del Paleolitico superiore e del Neolitico, ha ampliato il significato di vita intrinseco al corpo femminile e al rosso del sangue mestruale, poiché gran parte degli elementi del culto a cominciare dai vasi e dalle statuette erano dipinte in ocra rossa, per sacralizzare il mistero che il sangue è vita, è capacità riproduttiva. E’ probabile che la parola “sangue” fosse a quell’epoca l’equivalente della parola “rosso” e concettualmente lo fosse, forse, dal Pleistocene, poiché in tutte le culture, a qualsiasi latitudine, i colori primari percepiti dal sistema tricromatico della retina sono il bianco, il nero e il rosso, facilmente associabili al giorno, alla notte e alla vita, sebbene i primi due non sono esattamente colori ma soltanto presenza ed assenza di luce. Sullo scenario europeo, quindi, Il sangue è stato identificato: nel Paleolitico Superiore e nel Neolitico con il colore rosso e il ciclo mestruale, durante l’età dei metalli con la carne cruda e le ferite, in epoca protostorica con un liquido che scorre all’interno del corpo e solo in epoca storica con un liquido corporeo vitale e sacro. A questo cambiamento linguistico e semantico hanno contribuito due fattori evolutivi: la scoperta dei metalli e l’elaborazione delle conoscenze scientifiche sulle funzioni del sangue. La scoperta dei metalli che ha contribuito non poco al miglioramento delle condizioni di vita introdusse anche il cambiamento di una cultura incentrata sulla donna, tipica soprattutto del Neolitico, in una cultura incentrata sull’uomo guerriero, che sperimentava quanto fossero lesive della carne umana ed animale le armi che adoperava. Il rito dell’iniziazione maschile con l’incisione della propria carne e la fuoriuscita del sangue probabilmente divenne preponderante sul simbolo della fertilità femminile perché era il valore in battaglia a garantire la sopravvivenza del gruppo più che la fertilità della donna. Ma il sangue coagulato era soltanto una trasformazione del sangue liquido che scorre nel corpo e non fu difficile per i guerrieri rendersi conto che quel liquido era essenziale alla vita del singolo individuo perché quando non riusciva a condensarsi portava alla morte. Se si fosse saputo dove scorreva e come scorreva si sarebbe potuto anche intervenire per bloccare l’uscita del sangue spontaneamente inarrestabile. Le necroscopie attuate dalle scuole anatomiche greche ed egiziane e l’esperienza dei medici sui campi di battaglia fu enorme per maturare la convinzione che nonostante tutto quel liquido corporeo aveva una sua sacralità, perché era dominabile solo in poche circostanze. La stessa capacità di trasformarsi da liquido in solido era di per sé un evento divino, perché inspiegabile. Conclusioni: il sangue nei linguaggi indoeuropei probabilmente è stato indicato con parole che richiamavano: nel Paleolitico Superiore e nel Neolitico il colore e la fertilità femminile, nell’età dei metalli la carne lesionata dalle armi da guerra, in epoca storica un liquido che scorre all’interno dell’organismo.

Bibliografia

Ancient History Encyclopedia 

-Bonomi F. Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana

-Bury J.B., Cook S.A., Adcock F.E.The Cambridge Ancient History. Cambridge University Press, 1928. [scarica]

Dizionari etimologici della lingua inglese –Dizionari etimologici della lingua tedesca

-Encyclopedia of human evolution and prehistory. 2nd edition, Routlidge Publisher, 1999. [scarica]

Institute of Human Origins. Becoming Human

-Lista delle radici Proto-Indo-Europee -Magner L.N. A History of Medicine. Taylor&Francis, 2005. [scarica]

-MacBain’s Gaelic Etymological Dictionary

-Pokorny J. Indogermanisches Etymologische Woerterbuch –U.S. National Library of Medicine. History of Medicine

-Wenke R.J. Patterns in prehistory: humankind’s first three million years. 5th edition, Oxford University Press, Oxford 2006. [scarica]